Don Angelo Zoratti

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Come lo ricorda l'architetto Ivo Scagliarini nel trigesimo della sua morte. Don Angelo Zoratti, classe 1909, è morto il 7 agosto scorso. Svolse la sua attività pastorale a Medeuzza, dal 1938 aI 1959, dove era stato cappellano del parroco di San Giovanni e poi pastore della nuova parrocchia. Fu poi parroco a Chiasiellis dal 1959 al 1995. Consumò gli ultimi anni di vita nella sua casa di origine, a San Lorenzo di Sedegliano, da pensionato povero, celebrando quotidianamente la Messa all’altare della sua camera e pregando in silenzio. Lo conobbi a Medeuzza; non fui suo parrocchiano; abitavo nel paese vicino, a Chiopris. Nel trentesimo giorno del suo “dies natalis” colgo l’occasione per dedicare un ricordo a questo prete schivo e sconosciuto. Statura imponente, corporatura asciutta avvolta nella tonaca svolazzante, volto ossuto, capelli a spazzola, occhi di un azzurro chiaro come il cielo, sguardo penetrante e le mani…di bosso, grandi come due pale da mulino, nodose, forti, di eredità genetica contadina. Due mani indimenticabili, uniche: affiora il ricordo sfumato di quando si alzavano per benedirmi, da “enfant terribile”, a richiesta di mia madre che indicandomi chiedeva: “al’è tant trist; sior capelan che i dei une benedizion!“. Lui l’accontentava, con un malcelato sorriso sulle labbra, mentre stavo accucciato, compunto, seppur scettico a causa di quel suo sorriso, sull’inginocchiatoio dello stretto corridoio che collegava la canonica di Medeuzza alla chiesa. Per rigore e intransigenza ricordava il Curato d’Ars; per tatto con i ragazzi, Don Bosco: era seguito quasi perennemente da uno stuolo di discoli di paese, parcheggiati nelle sue mani sicure. Li guidava in passeggiate nella campagna circostante; li faceva giocare con un vecchio montacarichi, abbandonato dalle truppe alleate, utilizzato come scivolo; poi apriva l’armadio delle “meraviglie”: era un armadio a muro, con le porte di ferro dipinte in giallo, dentro c’erano gli oggetti più disparati, la gioia di noi discoli di campagna: un trasformatore di corrente, una pinza da bigliettaio, una canna di mitra Sten e una serie di cianfrusaglie surrogato dei giocattoli per tempi d’indigenza generalizzata. Alla fine la visita in chiesa e preghiera. La sua vita era di povertà francescana: pasti a razione da lager; tonaca strapunta intorno ai polsi; soggiorno in un alloggio dai muri ingrigiti: ho sempre avuto il sospetto che volutamente facesse uscire il fumo dalla griglia del focolare per sopportare i rigori invernali dosando la poca legna disponibile. Si accontentava del minimo...e spesso…di molto meno. Rifiutava con garbo e decisione l’aiuto materiale offertogli, gratificato di servire il Cristo a cui si era votato. La profondità della sua fede era pari al grado d’indigenza materiale. Una fede forte come le sue mani che ne erano specchio. Per don Angelo le narrazioni evangeliche erano resoconto storico certo, non simboli. Mai lo sfiorò il timore di apparire fuori moda, di essere considerato uomo d’altri tempi, “cristiano non adulto”. La speranza in Dio faceva da contrappunto al pessimismo costituzionale. Coerente con le proprie scelte di vita e convinto che la più pietosa delle povertà fosse quella spirituale, praticava la carità essenziale che precede ogni altra: la missione evangelizzatrice, senza cedimento a sociologismi o buonismi. La convinzione radicata sulla fugacità e vacuità delle cose umane lo rendeva schivo da lodi e onori; coraggioso nell’azione; scettico sulle ideologie: lui era un prete cattolico! Il suo unico riferimento era il Vangelo; la sua guida il magistero cattolico; oggetto della sua attenzione era ogni uomo, figlio dello stesso Padre, e quindi fratello, a prescindere dalla militanza politica, dalla nazionalità, dalle opinioni, dallo stato sociale. Non giudicava; insegnava e correggeva. Gli interessava l’anima di ognuno. Di don Bosco praticò il motto: “da mihi animas cetera tolle”. Con la dignità di un coraggio singolare seppe vivere i tempi terribili della guerra e del dopoguerra: per aver stigmatizzato, nella predica di una fredda domenica del 1944, gli eccessi di due soldati tedeschi, che uccisero una ragazza del paese per gioco, si vide puntata alla tempia la pistola di un capitano delle SS ma non ritrattò. Sfidò la tracotanza di partigiani comunisti che, nel maggio del 1945, entrarono in chiesa con la bandiera rossa e furono da lui cacciati. Nell’immediato dopoguerra, l’ammonimento, velato di minaccia, da parte della polizia militare alleata, non lo indusse a demordere dal richiamo pervicace alla moralità dei costumi. In tema di pastorale praticava la parte essenziale della raccomandazione gesuitica: spesso non “suaviter in modo” ma sempre “fortiter in re”. Sempre durante la guerra civile, tenne nascosti per alcuni giorni nel sottotetto della chiesa undici aviatori di un aereo americano abbattuto (erano anche loro suoi fratelli in Cristo); dette asilo alla moglie di un partigiano braccato ricercato dai militi della tristemente nota caserma Piave di Palmanova. La carità umana, a rischio della vita, come conseguenza della sua fede. Una vita da prete cattolico, segnata da ortodossia e ortoprassi, che dimostrò di saper scommettere la vita sul Vangelo. Chi, avendolo conosciuto in vita, sentisse vacillare la fiammella della propria fede pensi a lui. Mandi pre’ Agnul. (Articolo apparso su Voce Isontina dell’11 settembre 2004)